I piccoli si trovarono così completamente privi di punti di riferimento. Molti comuni dovettero organizzare degli asili nido, corsi scolastici, ricreatori, scuole di lavoro che dessero loro la prospettiva di un futuro. Nelle città questo tipo di iniziative furono più facili grazie alla presenza di strutture già esistenti mentre nelle campagne le cose furono molto più difficili. In alcune zone del centro Italia nacquero delle colonie che alternavano lo studio ai lavori nei campi, cercando così di inserire i giovani all'interno di una nuova realtà. Una delle problematiche principali infatti era proprio quella dell'emarginazione.
Come gli adulti, anche i bambini profughi furono visti come degli estranei: "i ragazzi siciliani ci menavano, pensavano che noi fossimo la causa dei loro guai. Ci chiamavano rossi del nord. Non avevano mai visto la neve e quell'inverno, dopo il nostro arrivo, era nevicato più volte. […] I ragazzini del posto ci canzonavano: sti profughi ci anno portato 'a neve." (Testimonianza di Giovanni Pianaro in Daniele Ceschin, "La condizione delle donne profughe e dei bambini dopo Caporetto", in "DEP - Deportate, esuli, profughe, Rivista Telematica di studi sulla memoria femminile", n. 1, 2004, p. 41)
I più fortunati, nei mesi successivi, riuscirono a ricongiungersi ai propri genitori o parenti. In quel caso i bambini poterono contare sull'affetto familiare ma i problemi rimasero gli stessi: la povertà era sempre all'ordine del giorno e molti di loro, anziché frequentare le scuole del posto, venivano tenuti a casa per sbrigare le faccende domestiche (specialmente se la madre era costretta a lavorare in assenza del padre). In questo modo le due comunità , quella autoctona e quella dei profughi, rimasero sempre divise.